DALMAZIO
AMBROSIONI:
“DA TEMPO AMICI … … DA TEMPO ARTISTI”
JEAN MARC BÜHLER E MARCO PIFFARETTI
Galleria d’Arte
Rissone
Grazie a Silvia Rissone Gatti, la gallerista; con la sua esperienza, la
capacità e anche l’abitudine di vedere le cose ha sintetizzato uno degli
elementi centrali di questa mostra: il fatto che Jean Marc Bühler e Marco
Piffaretti sono amici, hanno già esposto insieme, eppure le rispettive opere
sono diverse. Questa capacità di sintesi, di capire i motivi più veri di un
evento come questo, spiega il successo di questa Galleria e delle sue
proposte.
Ci basta guardarci attorno questa sera per vedere che siamo in tanti, tante
persone, tanti amici, tanta gente appassionata e cultrice d’arte. Bene,
buonasera a tutti, per me è un piacere. Vedo Mimmo Rissone che entra ed
esce, lo saluto particolarmente da amico ed estimatore della sua opera; mi
fa molto piacere rivederlo, lo saluto come il… padre putativo di questa
Galleria, di questa iniziativa.
Da tempo amici, da tempo artisti. E’ vero, il loro rapporto, la loro
collaborazione sono di lunga data. Potrei mettermi anch’io non negli artisti
ma negli amici perché ci conosciamo da molto tempo, con Jean Marc
addirittura dagli anni Settanta. L’amicizia in questo caso è uno degli
elementi fondamentali perché sia con Marco Piffaretti che con Jean Marc
Bühler c’è stata una vicinanza assidua, affettuosa anche, più o meno
intensa, magari si sta anni senza vedersi ma si sa che l’altro esiste, che
l’altro lavora, che porta avanti un certo tipo di lavoro e poi ogni tanto ci
si incontra come in questa occasione, si fa un tratto di cammino insieme, il
discorso riprende, si approfondisce e per me è un piacere vedere la loro
evoluzione, il loro percorso, lo sviluppo della loro attività che – credete
– è assolutamente intenso e progressivo, nel senso che tutte le volte trovo
del nuovo, sviluppi nuovi, ogni volta indicazioni che sono sicuro
porteranno, e questa mostra ne è una conferma, verso approdi nuovi.
Giustamente diceva Silvia Rissone Gatti che i due sono amici e vicini anche
come opera. Io direi che sono complementari. Nell’amicizia e nella
collaborazione sappiamo che è fondamentale… non pestarsi i piedi. Jean Marc
Bühler e Marco Piffaretti, tanto sul piano umano che operativo, della loro
opera, non si pestano i piedi, ma si integrano, sono complementari. Dove
finisce uno comincia l’altro. Non appena ho cominciato a pensare a questa
mostra e alla presentazione mi sono subito detto: ecco, Marco Piffaretti
scultore e Jean Marc Bühler pittore. Invece non è vero, perché Marco
Piffaretti è un bravo e sperimentato scultore, dotato di una propria linea
stilistica, ma è anche pittore e disegnatore sopraffino; allo stesso modo
Jean Marc Bühler è si pittore, disegnatore, vignettista ma è anche – come
scopro questa sera e qualcosa già sapevo - uno scultore raffinato. Raffinato
nel senso moderno del termine, cioè di un autore che sa far rivivere in modo
nuovo, aggiornato - e questa è operazione d’arte - le cose del passato. Le
cose che parevano morte, finite, buttate e che ritornano con lui a nuova
vita, a nuovi significati.
Un elemento importante della mostra è esattamente questo. La loro capacità
di riportare a nuova vita non solo i materiali che sembravano aver esaurito
il loro ciclo, non solo le situazioni dimenticate o alle quali non si ha più
la capacità di guardare, ma anche di suscitare vita. Cioè di fare in modo
che questa vita così dispersa, che non si riesce più a vedere per
distrazione, abitudine, mancanza di tempo o quant’altro, venga ravvivata e
riproposta ai nostri occhi. Marco Piffaretti lo fa in un modo, Jean Marc
Bühler in un altro, tra loro comple¬mentari, diversi e proprio per questo
capaci di strutturare un dialogo.
Direi che fondamentalmente in questo racconto di vita Marco Piffaretti è più
riflessivo, più meditativo, forse anche introverso, più attento a motivi
delicati, a certi particolari che insieme compongono il quadro e insieme
delineano una situazione. Jean Marc Bühler è più immediato, pronto, rapinoso
nel cogliere aspetti anche esteriori che normalmente sfuggono, attento ad
annotare atteggiamenti, modi di vivere, modi di essere, magari anche tipici
che però sfuggono tra le pagine del tempo e del quotidiano e sempre meno
vengono notati, anzi si è persa la capacità di rilevarli. E così sa cogliere
cose che in questo mondo che diventa uguale un po’ dappertutto, normalmente
si tende a non distinguere più e a disperdere: i tipi, i modi di essere, i
personaggi, anche le macchiette, gli atteggiamenti, quei modi di trovarsi e
di essere in cui si diventa sé stessi, magari nella solitudine o di fronte a
un bicchiere di vino nell’osteria, di fronte alla vita che va avanti come un
calendario che tende a omologare e a rendere tutti uguali, come automi, e
invece le persone vogliono giustamente mantenere le loro caratteristiche e i
loro caratteri.
Sia Marco che Jean Marc fanno questa operazione con assoluta puntualità.
Marco Piffaretti è più attento ai chiaroscuri, ai giochi di luce e di ombre,
infatti alcune sue opere, soprattutto le tecniche miste, si intitolano luci,
Luci nel bosco, Luci in campagna, proprio perché mettono in evidenza i
chiaroscuri della vita, delle situazioni e anche del territorio. Jean Marc
Bühler è più attento a cogliere aspetti reali per quanto sfuggenti, che sa
comporre dal punto di vista figurativo con un grafismo ben impaginato. I
tipi sono colti con precisione, sono addirittura scolpiti nelle loro
particolarità, sono colti nella loro essenza, nella loro diversità, nella
loro identità.
Un’altra diversità nell’ambito sempre dell’integrazione è che Marco
Piffaretti lavora più in profondità, cioè in una direzione verticale. Tende
a puntare alla radice delle cose, là dove le cose nascono, incominciano a
configurarsi, ad essere e ad assumere vita. Quindi ecco la coppia, la figura
femminile, ecco le luci, le riflessioni, le meditazioni, le viae crucis, non
solo riferimenti di tipo religioso ma ancor prima personale; tutti abbiamo
le nostre viae crucis, momenti in cui ci sentiamo in qualche modo
crocifissi, giudicati, condannati, in difficoltà. Invece definirei la
pittura di Jean Marc Bühler quasi cinematografica. Molte delle sue
composizioni – come La vita è un treno, La vita è un lift e altre – sono
come dei piano-sequenza cinematografici in cui si sviluppa una maturazione
progressiva attraverso le sfumature, i particolari, l’uso calibrato del
colore e le situazioni maturano attraverso una progressione ben ritmata.
Jean Marc Bühler percorre la sua orizzontalità fino in fondo, aggiungendo
annotazioni e indicazioni anche parecchio gustose, allo stesso modo in cui
Marco Piffaretti percorre la sua verticalità fino in fondo e non finisce mai
di scavare, di andare oltre, di cercare e scoprire elementi nuovi.
Mi piace ricordare che entrambi sono figli d’arte. Ho conosciuto il papà di
Jean Marc Bühler al San Bernardino, la sua attenzione verso le cose
dell’arte, con la rara capacità di appuntare con immediatezza figure, volti,
paesaggi, situazioni e stati d’animo. Conosco e saluto il papà di Marco
Piffaretti, il prof. Giovanni Piffaretti, ricercatore attento della storia
del nostro territorio, dell’emigrazione e della cultura artistica, della
perizia operativa e artigianale delle genti di questo territorio. Dico
questo perché entrambi conservano qualcosa di quelle ascendenze, e in
qualche modo le esprimono nelle loro opere, ne tengono culturalmente conto
come punti di partenza. Per poi partire verso avventure espressive nuove ed
indubbiamente originali.
Dicevo del riutilizzo in forma nuova di materiali che hanno esaurito la loro
funzione e sono diventati di scarto. Le sculture, gli assemblaggi di Jean
Marc Bühler li riutilizzano dando loro nuovo senso e nuove destinazioni:
vanghe che diventano volti di gatti, seghe che diventano giraffe,
tagliafieno che diventano personaggi. Un bestiario elementare, intuitivo,
piacevolissimo. E’ fatto di cose buttate, finite, che appartengono a
un’altra epoca anch’essa finita anche se ce la portiamo ancora dentro nella
memoria, e ritornano in questa nostra epoca assumendo non solo un’altra
forma ma anche un’altra destinazione. Non sono più strumenti ma simboli,
raffigurazioni. Questo recupero e questa operazione storica risultano molto
efficaci. Lo stesso vale per Marco Piffaretti, seppure da altra angolazione.
In particolare nella capacità di riutilizzare a sua volta materiali finiti e
buttati, legni e cartoni, che trasposti nel bronzo assumono nuova
fisionomia, nuovi significati, talvolta anche ricollegandosi, nel tempo, ad
antiche architetture, a strutture originarie, archetipiche come l’arco.
Ritroviamo il recupero di questa dimensione storica tanto nelle tecniche
miste quanto nelle sculture. Siamo in presenza di elementi che danno corpo
all’opera, la storicizzano, attraverso una dotazione che viene da lontano e
che si configura nel presente.
Termino con un ultimo elemento, ed è il piacere di guardare queste opere, le
sculture di uno e dell’altro, le tecniche miste di uno, le grafie
dell’altro, le attentissime composizioni grafiche di Bühler, la figurazione
interiore di Piffaretti. Tutte si reggono su una indiscussa qualità. I
latini e i greci nelle definizioni di Ars e di Techné avevano inserito il
concetto di “cosa ben fatta”. L’arte era un’attività privilegiata per quanto
impegnativa, con le cose ben fatte, tanto che ancora oggi di una cosa fatta
bene si dice che è fatta a regola d’arte. Tutte queste opere, nei rispettivi
generi e con i rispettivi strumenti, sono fatte a regola d’arte. Oltretutto
sono piacevoli a vedersi, sono positive perché portano allo scoperto la
vita, fanno emergere il gusto di vedere le situazioni, di indagarle, di
andare a fondo, di ravvivarle attraverso la compartecipazione e il pensiero.
Tutte queste sono opere che stanno bene vicino a noi, stanno bene negli
ambienti dove viviamo, perché con tutte si instaura un dialogo. E quand’è
che un oggetto d’arte piace? Quando dialoga, quando comunica. Io penso che
in questa casa e in questa mostra corra attraverso gli artisti e le loro
opere, attraverso la gallerista e il padre putativo della Galleria, questa
intensa, gradevole, piacevole e accattivante comunicazione. |
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